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APRILE, 1/2016

Andiamo fuori dal silenzio

4/4/2016

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Ci ritroviamo anche noi nelle preoccupazioni di ogni giorno e, come cittadini, cerchiamo di abbattere quelle barriere che ci separano e ostacolano nell'incontro con l'altro. Siamo spesso occupati a difenderci, senza percepire che l'altro, in sé, non è un nemico; per quanto diverso, ci accomuna il nostro essere profondamente umani, nel bene e nel male; l'altro pertanto è una ricchezza, perchè si cresce solo attraverso, insieme.
Si parla spesso di povertà. La povertà è definibile come un fenomeno multidimensionale che tocca diversi aspetti della vita di un individuo, da quello economico e materiale a quello sociale e relazionale. Qualcuno parla anche di povertà progettuale, quando si è afflitti dall'incertezza del futuro, senza vedere orizzonti e senza riuscire a reagire.
L'idea serpeggiante è che per entrare nella società, per essere in e non out, bisogna avere certe cose e apparire in un certo modo. È la logica distorta del ben-avere e non del ben-essere ed è una logica che creiamo noi stessi.
Bambini e adolescenti non trovano più nella nostra società punti di riferimento stabili che li aiutino nella crescita, nella costruzione di una propria personalità e identità. Difficoltà o incapacità a progettare il proprio futuro o quello della propria famiglia si potrebbe tradurre in un disagio diffuso e non ben delineabile; tali problemi possono essere generate dalle ristrettezze economiche.
La nostra identità, la nostra cultura di appartenenza, i contesti e le situazioni che conosciamo, che ci sono familiari, che sentiamo nostri, sono la nostra zona di comfort, costellata anche da pregiudizi, stereotipi, inferenze su ciò che non è noto.
I giovani sono spesso percepiti come invisibili almeno nei discorsi pubblici, la società italiana non se ne cura, se non per esigenze di mercato, e fanno notizia solo quando protagonisti di episodi eclatanti. Non c'è posto per le loro istanze e i loro bisogni, si assiste a una passività generale verso il loro universo, non calmierata a sufficienza da quegli atteggiamenti retorici in cui si riferisce ai giovani stessi come agenti di futuro.
La nostra società sta cambiando, l'appartenenza nazionale sulla base dell'unità di terra, lingua, razza e religione è in crisi: i ragazzi di seconda generazione, più ancora che i loro padri, ne sono la prova. Si tratta di giovani che, diversamente dai genitori, sia nelle modalità sia nell'intensità, sono naturalmente portati a sperimentare forme di appartenenza e identificazione con il territorio fisico e sociale in cui vivono.
In Italia, l'allarme innescato dalle seconde generazioni – o l'opportunità, a seconda della prospettiva con cui si sceglie di osservarlo – è storia più recente rispetto a quanto accaduto altrove in Europa negli anni Ottanta e corrisponde al momento in cui un numero considerevole di figli degli immigrati si è affacciato all'età adolescenziale.
Viaggiatori di se stessi, viaggiatori verso la vita che pullula nel mondo circostante, l'adolescenza è l'età dei conflitti e delle forti sperimentazioni personali, dell'incessante fluttuare tra ricerca dell'indipendenza e bisogno di riferimenti certi. L'adolescenza è l'età della rottura col proprio sé infantile e con le sue balie, in cui tutto ciò che è stato appreso viene rimesso in discussione.
Gli adulti di ogni generazione guardano a loro stessi, giovani, come a un modello di gioventù migliore. Sarte, cuoche, addette alle pulizie, cameriere, molto spesso disoccupate, casalinghe, badanti: per le madri dei ragazzi di seconda generazione le occasioni di socialità e interazione con la comunità locale si riducono sensibilmente.
Progettare il futuro nel paese ospitante, in cui i figli si formeranno e socializzeranno, ridefinire e rivalutare il proprio progetto migratorio come un'esperienza duratura sono i due aspetti principali che una famiglia migrante deve affrontare.
Noi figli di immigrati abbiamo a che fare ogni giorno con due culture, quella di origine e quella in cui siamo cresciuti: questa interazione è positiva in molti ambiti, uniamo gli aspetti vantaggiosi di entrambe le culture e li facciamo nostri; chi mantiene la conoscenza delle due lingue è avvantaggiato perché la lingua è il veicolo con cui si trasmettono espressioni, storie, tradizioni e modi di vivere, costituisce senza dubbio un trampolino di lancio nella società.
Spesso, come figli di migranti, siamo esposti a forme più o meno velate di discriminazione, stereotipi di vario genere, a cui ciascuno può reagire in modi differenti. Il sentirsi incompresi da tutti è scomodo. Il sentirsi non integrati da nessuna parte, né nel contesto sociale di residenza, né in quello di origine di origine, crea una sorta di sospensione tra i due mondi che preme per essere risolta.
Maryam Achataoui
La riflessione deriva dalla lettura del testo "Fuori dal silenzio", a cura di F. Filippini, A. Genovese, F. Zannoni, edito nel 2010 da Clueb, Bologna
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