Ascoltare la testimonianza di un viaggio della salvezza è sempre qualcosa che lascia spiazzati. Lamin ha 22 anni, è nato in Gambia ed è rifugiato a Reggio Emilia grazie al progetto Sprar, curato da Comune di Reggio Emilia e coop. Dimora d'Abramo. E' un attore in erba, recita nello spettacolo "Questo è il mio nome" a cura del Teatro dell'Orsa. Moltissime sono state le domande da parte degli studenti, seguiti dagli educatori di Mondinsieme all'interno di un laboratorio sul tema delle migrazioni e del viaggio dei rifugiati da situazioni di guerra e instabilità politica. Tante domande si sono incentrate sulla salute di Lamin e alla sua scelta di dover abbandonare la famiglia, con il rischio di non arrivare vivo da nessuna parte. Da dove sei partito? Sono partito dalla Gambia lasciando le mie sorelle e il resto della famiglia. Quanti anni avevi quando sei partito? Avevo 19 anni,ora ne ho 22. Sono in Italia da poco. Avevi un amico durante il viaggio? Si, ne avevo uno ma durante il viaggio nel deserto eravamo circa in 25,gli altri non li conoscevo. Che sensazioni provavi durante il viaggio? Non ero felice perché avevo lasciato la mia famiglia,la famiglia è importante,la lasci perché devi seguire i tuoi sogni ma ci pensi sempre a loro. Non puoi essere felice del tutto,sai che vai via per stare meglio ma sai anche che hai dovuto lasciare da un altra parte chi ami,la famiglia è il tuo sangue, per fare le altre cose avrai sempre un sacco di tempo ma per la famiglia, è una sola e non ti dimenticherai mai di chi lasci. Perché sei andato via dal tuo paese? In Gambia c'è la dittatura, per questo. E' una storia lunga, vi dirò solo questo, un paese sotto la dittatura. Quanto è durato il viaggio? Il viaggio è durato sei mesi dal mio paese alla Libia. Poi in Libia sono dovuto rimanere un anno Quando entri in Libia è molto difficile uscire, è pericoloso. Se esci dalla Libia puoi morire nel deserto, anche se rimani puoi morire. Appena c'è stata l'ooportunità di prendere una nave, l'ho colta al volo. Hai visto morire delle persone? Si, le ho viste morire. In Libia. In Libia si muore per poco. La Libia è un inferno. Ci sono dei gruppi, delle bande che vengono da te, armati di pistole,coltelli, ti chiedono soldi, se non li hai ti ammazzano oppure ti mettono in prigione e ti picchiano tutti i giorni, tutti i giorni, e chi viene messo in prigione non esce vivo. Una volta sono andato a lavorare in un campo con un uomo della Libia, un generale, che ci ha detto di andare via, di trovare un modo per uscire dalla Libia. A noi diceva, visto che eravamo giovani, di provare ad andarcene perché la Libia non è un posto dove vivere. È un inferno, è un caos. La Libia è l'inferno. Se entri non riesci più a uscire. Devi scappare di notte, ma puoi morire lo stesso se lo fai. Non sei libero di andare da nessuna parte. Sei all'inferno. È molto,molto pericoloso rimanere. Quanto hai pagato per il viaggio? Sono partito lasciando i soldi a casa, ma un amico mi ha aiutato. Cosa mangiavi? Mangiavamo il garì,è un cibo sostanzioso,lo mangiavamo piano piano perché doveva rimanere per tutti i giorni in cui saremmo rimasti in viaggio in mare. Come stavi durante il viaggio? Stavo male perché nel deserto di notte c'è molto freddo, un freddo che ti taglia la pelle. Io avevo un apertura nel braccio e mi faceva molto male. Volevi venire qui e rimanere qui? Dove arrivi è casa tua. Se arrivi in un posto e ti aiutano,dove ti aiutano è casa tua. Devi stare, è difficile andare e lasciare chi ti ha aiutato. Quando finivi l'acqua, cosa bevevi? L'acqua non doveva finire, se ne beveva poco poco. Si pensa a domani e si guarda quanto ne rimane e si beve a gocce. L'acqua non deve finire. Quanti eravate nella nave? Eravamo in 350 persone. Lavori qui in Italia? Ho lavorato un mese quando sono arrivato, ora sto facendo un corso di formazione per poter lavorare. Parli con la tua famiglia? Si, li sento al telefono. Come stanno? Stanno bene? Si, stanno bene. Ti piacerebbe portare la tua famiglia qui? Si perché la famiglia la vuoi vedere sempre; per avere una morosa, un moroso c'è sempre tempo, ma per la famiglia no. La famiglia è sangue, se non è con te ti mancherà sempre, sempre. Hai mai ucciso qualcuno? No! Ogni vita è importante, se stai cercando di proteggere la tua vita non pensi ad altro. Perché sei arrivato a Reggio? L'accoglienza è andata cosi, prima Bologna poi Reggio un anno e sette mesi. Sapevi che la Libia era così? No, sta peggiorando di volta in volta. Ti piacerebbe tornare in Gambia? No, per lo stato delle cose no. Come mai hai deciso di fare teatro? Tu fai cose che ti fanno stare bene, anche io faccio cose che mi fanno stare bene. Tu fai calcio e ti senti bene, io faccio teatro e sono felice. Io sono un cantante, amo cantare, fare teatro è la cosa che mi avvicina di più alla mia passione. Faccio teatro perché mi sento felice, perché posso cantare e ballare ma posso anche parlare con le persone, persone che non conoscono la mia lingua. Se vai a teatro non c'è bisogno che sai parlare diverse lingue se c'è chi parla italiano e chi parla la mia lingua. Non c'è bisogno di capire quello che dico con la voce, ma quello che voglio dire con il corpo. Molti studenti si sono immedesimati, alcuni di loro hanno i genitori nel paese d'origine e ne sentono la mancanza; altri li hanno in Italia, ma sono stati per diverso tempo senza sentirli, prima che potessero raggiungerli. A ogni domanda, Lamin ha dato una risposta che ha lasciato a bocca aperta. Ad alcuni è capitato di dover lasciare il proprio paese o conoscono persone che lo hanno fatto in condizioni simili. Alla fine della testimonianza, i ragazzi si sono avvicinati a ringraziare Lamin, altri gli hanno detto che è stato coraggioso a parlare davanti a tutti e che dispiace per quello che gli è accaduto. Lamin è stato capace di comunicare in maniera limpida. Non c'è stato bisogno di qualcuno che traducesse i suoi gesti o le sue parole per metà italiane e per metà inglese: tutti siamo entrati in una sorta di mondo in cui bastavano gli sguardi per raccontare, raccontarsi, comprendere, comprendersi e sentirsi legati in qualcosa che fa molta paura, ma dalla quale un ragazzo, questo ragazzo, è riuscito a venirne fuori vivo. Non ci sono parole per descrivere ciò che è accaduto in questl'aula giovedì 10 Marzo 2016. Credo che la parola giusta sia umanità. Tiruwork Folloni
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