L’intercultura si basa, invece, sul senso di appartenenza delle persone straniere al territorio dove abitano. Se vogliamo realizzare un modello che eviti la chiusura tra quartieri e nelle relazioni, dobbiamo puntare sulla partecipazione degli immigrati, senza relegarli ai margini. Le politiche di integrazione si costruiscono insieme: gli stranieri e gli italiani diventano protagonisti insieme. Che rapporto c’è tra Mondinsieme e le associazioni? Mondinsieme è un laboratorio dove si tenta di superare la distinzione noi/loro. Ha uno statuto che chiede il rispetto di valori universali, quali uguaglianza di genere e rispetto dei diritti umani. Le associazioni aderiscono in base ad essi. Le persone che le animano non sono rappresentanti in esilio del paese di origine, ma cittadini reggiani che hanno peculiarità culturali e linguistiche con le quali noi lavoriamo. Il centro diventa per loro la casa delle associazioni, non al confine, ma dentro la città, dove si cercano insieme modi per essere attivi e partecipi alla vita sociale. In questi anni le associazioni sono cresciute, è un buon segno. Quale consigli daresti ai cittadini di origine straniera nel relazionarsi agli italiani? Le persone straniere che si organizzano in associazioni dovrebbero cercare di andare oltre l’idea per cui l’immigrazione consegna loro una rappresentanza culturale nei confronti degli altri. Così noi cittadini italiani e noi istituzioni dovremmo non intenderli quali interlocutori come fossero partiti culturali. Direi che elemento centrale è sempre e comunque la relazione. Uno può avere caratteristiche culturali diverse, ma non possono essere quelle che rendono gli immigrati estranei al contesto dove vivono. Si può essere stranieri avendo un permesso di soggiorno e una pessima legge, la più brutta in Europa, sull’immigrazione, e sentirsi lo stesso cittadini reggiani. Prima di tutto credo ci debba essere un forte legame con il territorio. L’apertura deve arrivare anche dagli italiani? Certo, abbandonando la prospettiva per cui quando parlano con qualcuno di origine straniera lo vedano come rappresentante del paese da cui proviene. Per esempio, benché sia molto tempo che vivo in Italia, essendo di origine araba sono visto come esponente dell’islam o testimone delle ribellioni in Libia. Ti collocano in una posizione in cui non chiedono il tuo parere, ma la conferma di quello che hanno già interpretato di determinate situazioni. Inoltre, si strumentalizzano troppo certe situazioni: rispetto alla primavera araba, si punta sulla paura dell’invasione di immigrati o sull’affermazione dell’islam fondamentalista, invece che vedere la sete di democrazia dei giovani e del popolo e, in prospettiva, una società più equa, con maggiore distribuzione economica, che frenerà le migrazioni, dovute tanto a ragioni economiche quanto alla ricerca di spazi di libertà. Insomma, la relazione con gli stranieri dipende molto da come vogliamo relazionarci con loro e le loro origini. Come spiegare che si chiama ancora straniera la persona che abita da tempo a Reggio? Quando ragiono con gli studenti dell’idea di una discendenza pura, faccio l’esempio di chi viene dalla montagna e si è trasferito a Reggio, o viceversa. Come li definiamo? Reggiani o montanari? Sono categorie che appartengono al secolo scorso, quando le persone non si spostavano. Adesso c’è più mobilità per lavoro, la classica figura del migrante è cambiata ed etichette e stereotipi fanno confusione. Se andiamo all’ospedale, così come nelle fabbriche, vi sono accenti che non sono solo reggiani. Allora, in termini di autoctonia, è straniero il padovano, il cutrese, il piemontese? Questa percezione è più forte in Italia perché c’è campanilismo: a Modena sono testa quadra, a Reggio sono invece marocchino. Per fortuna i giovani stanno abbandonando questo modo di pensare. Quanto sono importanti le scuole per il pensiero interculturale? Non è possibile pensare alla crescita delle persone e alla formazione di futuri cittadini senza il ruolo fondamentale scuola della scuola. Per questo va sostenuta invece che mortificata. Per di più si parla di scuole ghetto per istituti con alta presenza di studenti stranieri. Il senso del termine ghetto in passato indicava l’uniformità di una comunità, generalmente gli ebrei. Legare tale parola alle scuole multietniche dimostra che non si è capito molto. In verità esse non sono ghetto, magari lo sono quelle dove ci sono solo i figli dei reggiani che, se si guarda in ottica europea, avranno più problemi di altri, perché meno abituati a relazionarsi con la diversità culturale. Quindi la diversità diventa risorsa di sviluppo… Bisogna pensare all’intercultura come al concetto di cittadinanza europea, per cui ogni stato membro è parte dell’Europa senza rinunciare alla specificità della propria nazione. Lo si può applicare nelle città: non si chiede agli stranieri di rinunciare alla propria cultura, ma di sentirsi anche italiano e reggiano. Non è una prospettiva assimilatoria e non si lacera il tessuto sociale, fatto di persone e rapporti umani. Il motivo per cui ragazzi di origine straniera tendono ad avere atteggiamenti di chiusura è perché non li vogliamo vedere come italiani. Proviamo solo a immaginare cosa sente dentro un giovane che sia nato qua da genitori stranieri. È giusto che chi nasce in Italia, a prescindere dall’origine dei genitori, abbia la cittadinanza? Si tratta di capire con chi reggere il confronto: con l’Arabia Saudita, dove la cittadinanza si trasmette da genitori a figli per ius sanguinis, oppure con Usa e Canada, dove chi nasce lì è cittadino di quel paese, per ius solis? In Italia abbiamo ancora il diritto di sangue: permettiamo che dei nativi italiani siano immigrati senza aver mai migrato, con tutte le conseguenze culturali e sociali che comporta. Se non cambiamo rischiamo molto: l’anno scorso sono nati 560 bambini circa da coppie straniere. Un terzo dei bambini nati qua è figlio di immigrati. Dall’asilo iniziano a percepirsi come reggiani, rispondono a mamma e papà in italiano, vanno a scuola, sanno tutto dell’Italia, nulla della storia del paese dei genitori, ma solo a 18 anni possono fare richiesta di cittadinanza. Poi, se non la prendono, risultano apolidi, né figli dell’Italia né figli di altri paesi. È un po’ come dire che immigrati non si diventa, ma si può anche nascere, ed è sbagliato. Comments are closed.
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