“Ho scelto di parlare dei nuovi italiani, anche se loro stessi non amano molto questa etichetta – dice Francesca, intervistata dal centro interculturale Mondinsieme del Comune di Reggio Emilia e dalla redazione di Portale Integrazione Migranti del Ministero del lavoro e delle politiche sociali – Sono le persone nate o arrivate in Italia da piccole con genitori di origine straniera: i migranti scelgono di migrare, i loro figli no, per questo non bisogna confonderli”. Per Francesca Caferri “c’è un limite in ogni definizione: per capirli forse il termine migliore è proprio seconde generazioni, anche se non viene apprezzato. Non siamo secondi a nessuno, dicono. D’altro lato, se parliamo di nuovi italiani, possono esserlo anche persone che, una volta essere migrate in Italia, dopo anni e anni ottengono la cittadinanza italiana”. L’aggettivo nuovo va bene per una marca di cellulari, si è sentita rispondere Francesca: “io non sono nuovo” dicono. È importante, quindi, “dare il nome giusto alle cose e smettere di confondere la questione delle seconde generazioni con quella della migrazione, perchè non sono la stessa cosa”. Ecco, allora, che il modo migliore per raccontare una generazione già interculturale e in crescita è quella di avvicinarci alla vita e ai pensieri quotidiani, soprattutto al femminile, e dare il nome giusto, come quelli di Aia, Anwal, Tarek, Mohamed, Amir, Josef, Amin, Lina, Shahrukh, Albana, Sara, Marwa, Maria Ilena, Maryia, Michelino, Fakir, Aravind, … Francesca Caferri è a Reggio Emilia martedì 17 marzo dalle 10 alle 13 nell’aula magna dell’Università di Modena e Reggio Emilia in via Allegri per rispondere alle domande degli studenti delle scuole superiori, nell’ambito di Primavera senza Razzismo, programma di iniziative realizzato da Comune di Reggio Emilia e centro interculturale Mondinsieme per la Settimana d’azione mondiale contro il Razzismo, promossa da Unar. Perché parlare di giovani di origine straniera soprattutto attraverso lo sguardo di giovani donne? Spesso sulle givoani donne si concentra il discorso sull’integrazione. Si pensi, per esempio, alle giovani donne velate, che portano un segno immediatamente riconoscibile di diversità che la società italiana non vuole accettare. Si pensi anche a brutti episodi di cronaca nera nella comunità pakistana, che ha visto giovani donne come vittime. Volevo sapere come vivono questa prima linea, come vedono l’Italia che cambia. Piuttosto che di scontro tra culture diverse, c’è il rischio di uno scontro generazionale tra giovani e adulti di origine straniero avendo vissuto la migrazione con una prospettiva diversa? C’è sicuramente questo pericolo, d’altronde ogni generazione si scontra, ma in questo caso è più accentuato. Gli adulti riflettono un attaccamento a un mondo che i figli non sentono loro al cento per cento. Tuttavia, ho visto che ci sono casi anche in cui la propria identità originaria diventa più forte nei giovani. C’è il rischio di un effetto banlieue in Italia secondo te? Non credo ci sia un rischio banlieue, perchè non ci sono in Italia ghetti urbani come in Francia e Inghilterra. Piuttosto, ci potrebbe essere un effetto rabbia delle seconde generazioni, in prospettiva, soprattutto se non cambia legge sulla cittadinanza. Questa riforma è importante, è un punto di partenza: la rabbia viene se la vita quotidiana viene riempita per rincorrere la burocrazia, se si resta legati al permesso di soggiorno tutta la vita per abitare dove si è nati o dove si è arrivati a tre mesi, se una volta presentata la domanda di cittadinanza dopo cinque anni non è ancora arrivata la risposta. Quali sono a tuo avviso le sfide che questi giovani devono affrontare? Sono tante piccole sfide: non poter andare in gita scolastica con i propri compagni di classe perchè è in scadenza permesso di soggiorno, oppure la polizia che chiede ogni volta i documenti e si domanda da dove vieni, oppure ancora non poter fare avvocato perché a 23 anni, laureato e pronto al praticantato e all’esami di stato, non è ancora arrivata la cittadinanza, con ritardi sull’entrata nel mercato del lavoro, oppure altri blocchi che agiscono silenti e pesanti nella vita di questi fiovani. Hai intervistato molte studentesse. Che ruolo svolge il contesto scolastico multiculturale per i giovani? La scuola è fondamentale, è porta verso società, chiave per cambiare il futuro, un lugo dove tutti i bambini e gli adolescenti sonpo uguali. Il problema non è tanto a scuola, ma a casa, dove i genitori possono dire che con la bambina nera non si deve giocare. In generale, dr il dieci per cento degli alunni delle nostre scuole è di origine straniera, dovrebbe eserci più attenzione a questi temi. I territori, le città sembrano avere un ruolo importante nel tuo libro. Come hai scelto i luoghi della tua indagine? Quali valori aggiunti ha conferito al tuo lavoro questo approccio? Le città sono luoghi simbolici di realtà allargate. Reggio Emilia è simbolo di chi ha aperto gli occhi davanti al mondo e ha deciso di reagire in modo costruttivo, Treviso è stato a lungo simbolo del rifuto, mentre Napoli e Roma chiudono gli occhi e non fanno nulla. Infine, Torino è simbolo di un’unicità che unisce le migrazione dal Sud Italia a quelle globali, da questo punto di vista è la più avanzata. Aggiungo che la dimensione locale conta tantissimo: come bene insegna per esempio Reggio Emilia, e penso ai progetti di educazione interculturale e lavoro con i giovani, la realtà locale sopperisce là dove lo stato non arriva. Se non c’è il coinvolgimento del locale, c’è abandono e si naviga a vista. Per questo credo che un giovane cittadino di Reggio cresca in modo diverso da uno di Roma o Napoli, perchè è diversa la percezione della città, della cittadinanza e della partecipazione. Le testimonianze e storie che hai raccolto rispecchiano il carattere peculiare dello scenario migratorio italiano, fatto di molte comunità diverse. Quali elementi specifici dei singoli gruppi di cittadini, e quali aspetti invece trasversali, comuni, sono emersi dal tuo lavoro? Ogni giovane è accomunato dalla voglia di arrivare e di cogliere le opportunità che è diversa da una certa passività dei coetanei di origine italiana. A parte questo, ogni comunità o cultura ha sue peculiarità, alcune sono più chiuse come possono essere quella cinese che ho incontrato a Prato o quella pakistana, altre più aperte. Nessuna è meglio o peggio delle altre, allo stesso modo per cui gli italiani sono così diversi dagli islandesi o dai tedeschi. Quali sono le posizioni dei giovani che hai incontrato rispetto ai temi del lavoro e della cultura nel nostro Paese? C’è un grandissimo amore per la cultura italiana, da Dante al cinema di Ettore Scola. Si rinocoscono in questi esempi. Mi ha colpito quello che mi ha detto Aia: “Roma è città più bella del mondo, chi non la ama non dovrebbe essere italiano. Sul tema del lavoro, ho visto più consapevolezza della possibilità di andare via se la crisi non demorde, rispetto ai coetanei italiani. Sono pronti ad affacciarsi a questi nuovi mondi, anche perchè la loro è una famiglia con le valigie. Annarita Guidi Damiano Razzoli
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