Neanche a dirlo, e veniamo calorosamente accolti dagli educatori – Antonio, Sabrina e Valentina – e dai giovani che seguono le attività del presidio socio-educativo. Fatti accedere nella stanza dei laboratori, sediamo tutti a cerchio attorno a un grande tavolo, iniziando le presentazioni. I giovani, di età compresa tra i 14 e i 18 anni, si raccontano del paese di provenienza, da quanto tempo sono in Italia e la scuola che frequentano. Alcuni di loro faticano ancora a parlare l’italiano. C’è chi si sforza di esprimersi nonostante la barriera linguistica, segno che un tale confine è fatto solo per esser valicato, e chi invece ha appena iniziato a muovere i primi passi nella lingua di Dante. Per fortuna è un gruppo molto unito, non mancano i compagni disposti a tradurre per loro. Qualcuno mette ancora in dubbio il miracolo del diversity advantage? Le presentazioni cedono il passo ai temi voluti da questo incontro: questione Charlie Hebdo, libertà di espressione, senso di appartenenza, luogo che identifico come casa, cittadinanza, identità. Un foglio di carta scritto da una delle giovani ragazze del centro reca le parole “I’m no Charlie Hebdo, I’m Muslim”. Nessun presente giustifica l’atto terroristico, tanto meno riconosce i due attentatori come musulmani, ma il rispetto per le religioni dovrebbe essere mantenuto, dicono. La riflessione si sposta sui due terroristi – ragazzi separati dalla famiglia e con forti insuccessi scolastici – e sulle motivazioni che possono averli spinti a reagire così. La non appartenenza a nulla, la crisi identitaria portano entrambe all’esasperazione del conflitto interiore, sfogato attraverso atti di violenza. Erano alla ricerca di appartenenza, e gli estremismi vanno ad attecchire proprio lì, nelle crisi dei giovani che hanno vissuto fallimenti. La soluzione sta nell’evitare le ricadute nella devianza sociale e nell’insuccesso scolastico e personale, ma “l’opinione pubblica da la colpa di questi attentati ai musulmani”. Gli stessi terroristi “citano il Corano per legittimare ciò che fanno”, sebbene esista, sempre, la questione di come una persona stia “interpretando il testo sacro”. “Qualunque citazione decontestualizzata può essere strumentalizzata”. E’ il senso di appartenenza che va curato. Se “esci dall’Italia, capisci subito cosa significhi appartenenza. Chi è venuto da fuori non sa dove andare. Non sai la lingua, non sai come fare. E’ un bel trauma”. Lo Spagio Raga, come ci raccontano, è un luogo che con il tempo ha assunto una connotazione molto positiva. Durante i periodi più infelici dei propri vissuti, i ragazzi e le ragazze si ritrovavano lì, per stare assieme. Perché lì sanno che possono trovare analogie nelle vite degli altri, il confronto aperto, l’amicizia. E stanno meglio. E’ il caso di Isaac, di origine ghanese, dotato di una grandissima passione per la musica: “Qui mi riconosco molto. Qua conosco qualcuno con cui parlare. Dove sto non conosco nessuno, quando non sto suonando uno dei miei strumenti dormo”. Ma anche di Hamza, il quale si commuove sapendo di avere un posto all’interno del Centro, un porto sicuro che colma le distanze dal Marocco, il paese di origine, l’altra sua casa. Mentre esternano i loro sentimenti si percepisce il grado di affezione che hanno per Spazio Raga e gli educatori. Lo si legge nei loro occhi, nell’agitazione tutta giovanile, nello slancio emotivo che li avvolge quando parlano della loro identità, non più a metà tra un confine e l’altro di due paesi d’appartenenza, ma di un’identità che è somma tra le parti, multicolore e gigantesca. Tutta da scoprire, come i disegni murali realizzati in quella piccola grande arteria del cuore urbano, interculturale, di Reggio Emilia. Gabriele Mammi
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